Dai “conti in ordine” agli “extra-profitti” fino “alla torta insufficiente”: sono tante le espressioni utilizzare per gettare fumo negli occhi degli elettori e varare misure antipopolari
C’era una volta la politica che, tra le sue funzioni più nobili, aveva quella di essere pedagogica: chi faceva politica, e se ne interessava, imparava. Ossia imparava i fondamentali dell’economia, della statistica, della sociologia, della storia, della psicologia, del diritto pubblico e privato; imparava a parlare, dialogare, esprimere concetti, approfondire, convincere…
Oggi invece la politica è insulto, menzogna, manipolazione, soldi, prepotenza, ignoranza, arroganza, aggressione ed ostentazione del potere. Ma non parliamo tanto delle espressioni di odio (sarebbe troppo facile), ma piuttosto del dibattito cosiddetto istituzionale. Parliamo della manovra economica. Già il termine ‘manovra’ è usato impropriamente, perché allude ad un’operazione complessa a cura di un guidatore esperto, mentre qui siamo in presenza di un semplice ‘stand-by’: non c’è movimento, al massimo assistiamo ad una semplice marcia indietro.
Poi ci sono le parole chiave, tipo “conti in ordine”: e chi può obiettare? Ci mancherebbe che la legge di bilancio fosse impostata per sballare i conti pubblici. Ma per tenere “i conti in ordine”, non si può spendere più di tanto perché, altra espressione-chiave, “la torta è insufficiente”.
Qui dovrebbe entrare in gioco l’abilità del governo a manovrare.
Perché governare non significa solo spendere, più o meno bene le risorse, ma significa anche reperire altre risorse se quelle date, non sono sufficienti. Ma Il Governo Meloni non manifesta nessuna abilità. Le uniche risorse disponibili, per investimenti, sono arrivate dall’Europa con il PNRR, procacciate dal Governo precedente e mal spese da questo governo.
Ciononostante la Meloni, con quella bella faccia mostrificata dalla veemenza oratoria, dice che i governi precedenti hanno lasciato soltanto debiti. Infatti sul versante delle risorse si parla di reperirle dagli “extra-profitti”, altra parola chiave che serve a confondere ed a depistare. Il problema non sono gli extra profitti, bensì i profitti che sono tassati esattamente la metà di quanto sono tassati i salari; quindi non si tratta di chiedere alle banche ed alle assicurazioni un contributo di solidarietà, quasi un gesto di beneficenza, ma si tratterebbe, semmai, di applicare il principio di equità fiscale sancito dalla nostra Costituzione e tassare, almeno nella stessa misura, i redditi da lavoro e quelli da profitto.
I lavoratori dipendenti ed i pensionati percepiscono meno del 40% del reddito nazionale e pagano oltre l’80% di tasse, perciò siamo all’opposto esatto della proporzionalità Costituzionale. Questa ingiustizia fiscale non nasce con il Governo Meloni, ma esso ci ha ‘messo un carico’, perché ha ridotto le aliquote Irpef da quattro a tre ed ha istituito una consistente area di flat tax. Se fai un’operazione del genere, oltre alla proporzionalità, fai saltare anche la progressività prevista dalla Carta ed aumenti esponenzialmente l’ingiustizia fiscale.
Qui la Meloni barcolla e per riprendersi butta lì, tra ignoranza e furbizia, un’altra parola chiave farlocca: “Ceto medio”. Nei confronti del quale occorre un interventino per alleviare il disagio fiscale e tutti i cortigiani, un po’ furbi e un po’ ignoranti, le vanno dietro. Ma quale ceto medio?
In tutta la letteratura, politico-sociale, il ‘ceto medio’ è identificato da lavoro autonomo, professionisti, artigiani, commercianti: categorie che, ancorché impoverite dalla oligarchizzazione dell’economia e della finanza, non sono certo in sofferenza fiscale, visto che per loro è stata introdotta la flat tax fino a 75.000 euro, insieme all’opzione del regime forfettario. E, da tutte le statistiche, risulta che contribuiscono al gettito fiscale in misura irrisoria. Si badi, non stiamo parlando di evasione fiscale, nei confronti della quale la compiacenza del governo ha raggiunto il top, con condoni, ormai strutturali, scadenzati in ogni legge di bilancio, che non si chiamano neanche più così essendo stato introdotto il termine di “rottamazione” (altra parola chiave) di cartelle esattoriali, comprese quelle di chi aveva aderito al condono precedente e non aveva pagato neanche quello.
Chi si trova dunque in sofferenza fiscale? I lavoratori dipendenti ed i pensionati, chiamiamoli con il loro nome, con i loro salari, stipendi e pensioni, cioè i titolari di redditi fissi che subiscono la trattenuta fiscale alla fonte. Sono loro che versano oltre l’80% del gettito pur rappresentando meno del 40% della popolazione. E non possono dedurre dal loro misero reddito da lavoro neanche l’affitto della casa, che mediamente se ne mangia oltre la metà. Inoltre, sono proprio loro, i redditi intermedi, che possono variare aliquota fiscale, dalla prima alla seconda e alla terza, e quindi vengono ulteriormente falcidiati dal ‘fiscal drag’ (il drenaggio fiscale).
Nel biennio 2023-2024 il drenaggio fiscale si è mangiato 25 miliardi dei lavoratori e pensionati. Oggi, nella proposta di bilancio del governo, si prevede un ristoro di 2,4 miliardi, attraverso la riduzione dell’aliquota intermedia dal 35 al 33%: meno di un decimo di quello che hanno pagato ingiustamente.
Altro che sciopero generale: qui ci vorrebbe la “rivolta fiscale”, visto che il governo non esprime la volontà politica di varare una riforma fiscale equa, visto che non si vuole applicare il sostituto d’imposta su tutti i redditi e tutte le transazioni, cosa che oggi sarebbe possibile tecnicamente utilizzando la tecnologia digitale ed i pagamenti elettronici. Perciò andrebbe abolito il sostituto d’imposta per i lavoratori dipendenti ed i pensionati: tu mi dai ciò che mi spetta al lordo ed io faccio la mia denuncia annuale, con le deduzioni del caso, per poi pagare il fisco.
Figuriamoci se questo governo di destra filo trumpiano può mettere mano a riforme di questa natura. L’obiettivo dell’esecutivo, nascosto sotto la voce “conti in ordine” (che si traduce nella volontà di scendere sotto il 3% di disavanzo, per affrancarsi dalla procedura d’infrazione dell’UE), è quello di finanziare il riarmo, la madre di tutte le parole chiave.
Infatti, per quanto camuffata, la posta di bilancio per gli armamenti è quella più alta in assoluto (12 miliardi nel triennio), ma ancor più grave è che proprio l’obiettivo di rientrare sotto il 3% (e uscire dalla procedura d’infrazione) è finalizzato a predisporsi alla richiesta di deroga dai parametri europei per le spese militari a debito, che altrimenti sarebbe preclusa.
Quindi la manovra futura non potrà sforare il deficit per la sanità, la scuola, i salari e le pensioni, ma potrà farlo soltanto per le armi.
Quindi ci troviamo all’interno di un percorso di riarmo europeo che nel decennio costerà all’Italia circa 132 miliardi, quasi pari all’intera spesa sanitaria (di 137 miliardi).
Ci rendiamo conto di che cosa ci stiamo giocando con queste scelte di bilancio? Certo, non è facile rendersene conto di fronte ad una premier che fa di tutto per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, con la complicità della stragrande parte del sistema informativo e mediatico. Quando la dialettica sul merito di alcuni contenuti, anche secondari, risulta essere tutta interna al governo fra Lega e Forza Italia, tra Lega e Fratelli d’Italia, tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia… le critiche e le proposte dell’opposizione, e della CGIL, vengono silenziate.
Non è stata certo sufficiente la manifestazione del 25 ottobre. È evidente che la nostra democrazia è in pericolo. Ma forse questo pericolo non è davanti a noi, bensì è già alle nostre spalle: perché già oggi la nostra democrazia è irriconoscibile.
Pietro Soldini